(…) Per cuocere il pane venivano donne del vicinato; perché l’impresa era grossa, e bisognava impastare, tirare la pasta in larghe sfoglie, passarle una a una alla donna che sedeva alla bocca del forno, con le cocche del fazzoletto rialzate sulla testa, il viso illuminato nell’ombra. Questa metteva la sfoglia su una pala liscia e sottile […] infilava la pala nel forno e la sfoglia al calore diventava, se era ben fatta, un’immensa palla, che veniva passata a un’altra donna seduta con le gambe in croce davanti a un panchetto, e con un coltello la ritagliava lungo i bordi […] Il lavoro aveva la solennità di un rito”.
Sorrisi che ti accolgono. Mani di lavoro e di fatica, che si aprono quasi in un abbraccio. Non smetterò mai di stupirmi di fronte all’ospitalità di certi luoghi di Sardegna. Eppure lo sono anche io, sarda. Ma è nell’entroterra che questa peculiarità si fa più vera e sentita. Che si percepisce. Come un qualcosa di tangibile nell’aria e negli occhi fieri e guardinghi delle persone che si incontrano per strada. Siamo ad Orgosolo. Paesino arroccato in quella Barbagia del Supramonte cantata, osannata, criticata. Quella dei pastori che lottano. Quella delle storie raccontate sui banditi tra le pagine di un libro. Quella delle donne che guidano le famiglie. Di matriarcati lunghi che si perdono nella notte dei tempi. Quella parte di Sardegna in cui abita anche la neve.
La mia abitudine alla città e alla quotidianità, fatta di traffico e fretta, mi fa guardare a questi luoghi con uno sguardo innamorato e stupito. Come se fossi una turista qualsiasi. Come se da qui, da Cagliari, a lì, alla Barbagia, ci fossero due continenti di mezzo. E invece facciamo parte della stessa terra. Siamo bagnati dallo stesso mare e sferzati dallo stesso vento di maestrale. Quanta diversità in questo popolo antico che siamo noi sardi.
Orgosolo mi ha accolto così. Con tutto il suo splendore di paesino aggrappato ai monti. Che poi tanto paesino non è. Case sparpagliate lungo uno spazio, che a cercare di misurarlo sembrava infinito. L’invito di Laore, l’agenzia regionale che si occupa di agricoltura e sviluppo rurale, era particolarmente ghiotto. E il termine ghiotto, lasciatemelo dire, è usato davvero nell’accezione corretta. Perché noi ad Orgosolo ci siamo state per l’inaugurazione del Museo del Pane Carasau. Ora, se un po’ avete imparato a conoscermi, sapete bene qual è il mio rapporto con il cibo della tradizione. Io sono una purista. Una di quelle che vanno a cercare l’origine degli alimenti e che ama riprodurli così, come sono venuti al mondo. La storia del pane, poi, è sempre molto affascinante. Forse è l’unico cibo che, in qualche modo, può darsi l’appellativo di democratico. Accomuna tutti i popoli. Nessuno escluso. Un po’ di farina, quella che offre il territorio, un po’ di lievito, un po’ di acqua e la magia è servita.
Il pane carasau non fa eccezione. E’ un racconto antico. E’ un racconto al femminile. E’ un racconto che sa di famiglia e vicinato. E, infatti, il benvenuto ci è stato dato proprio da una famiglia. Tre donne e un uomo. Ma, non lasciatevi ingannare dalla presenza maschile. Questa è una storia tutta in rosa. Dove mariti, padri e fratelli non hanno un loro ruolo definito.
Il Museo del Pane Carasau sorge tra le mura di una vecchia casa. Ed è qui che ci è stato spiegato come viene preparato questo pane, ideato per le esigenze di un tempo. Quando i pastori avevano bisogno di portarsi dietro il cibo, anche per giorni, e i forni stavano perennemente accesi.
Farina di grano duro, semola, sale, acqua e lievito. Ingredienti semplici. Quelli che si trovavano a disposizione.
Potrei stare qui a darvi dosi. A spiegare passo dopo passo la sua preparazione. Ma ciò che ho imparato in una giornata ad Orgosolo è che realizzare il pane carasau è una faccenda seria, che impegna più di una persona. Ho scoperto, infatti, che per prepararlo ci vogliono almeno tre donne. Soprattutto quando si termina di creare le sfoglie e si mette a cuocere questo piccolo tesoro gastronomico nel forno a legno. Ero pronta a replicare tutto una volta tornata a casa, ma, dal momento che non sono la Trinità, ho deciso che mi sarei accontentata di acquistarlo. In fondo l’ho anticipato, io sono una che con le tradizioni non ha davvero voglia di scherzare.
Quello che vorrei che immaginaste sono tre donne che muovono le mani quasi a ritmo di musica. Sincronizzate nei movimenti e nei gesti. L’impasto. La stesura. Sfoglie perfette e identiche a sé stesse.
Sfoglie che poi vanno a finire nel calore scoppiettante del fuoco. Una volta. Due volte. La prima, quando il pane carasau esce ancora morbido, su pane lento. Ed è uno spettacolo vederlo gonfiare nel fuoco. La seconda, la carasatura, da cui prende il nome e che dona a questo pane la sua caratteristica croccantezza.
Devo essere sincera. Non ci ho voluto neppure provare a dividere in due le sfoglie dopo la prima cottura. Guardavo quel pane carasau e lo vedevo così fragile per essere distrutto dalle mie mani non esperte. Certo non mi sono tirata indietro al momento dell’assaggio. Non avevo mai addentato questo pane appena cotto. Una delizia per il palato. Un’estasi dei sensi. Il rumore deciso e dolce dei morsi. Come si fa a non apprezzarlo? Se poi arriva nella versione guttiau, beh allora si è davvero in paradiso.
Un tempo nelle case di Orgosolo i forni erano quasi un qualcosa di comune. Si cuocevano chili e chili di pane carasau. Lo si preparava in una casa per la famiglia e per i vicini, che l’indomani avrebbero restituito il favore. Era un affare di paese il paese carasau. Testimonianza di un passato molto diverso dal presente in cui ci troviamo a vivere. Era un dono di Dio il pane carasau. Dio era ovunque. E c’è anche oggi. In ogni preghiera e in ogni benedizione che viene sillabata passaggio per passaggio.
Ovviamente, dopo la dimostrazione, dopo il racconto sull’origine del pane carasau, è arrivato anche il momento del pranzo. Qui ritorna l’accenno all’ospitalità sacra degli orgosolesi. Condita da un bel po’ di ghiottonerie tipiche del territorio. Salumi fatti in casa. Altre tipologie di pane dai nomi impronunciabili per una cagliaritana come me. E vino, vino come se piovesse. Ecco, non rifiutate mai un calice di cannonau se passate da queste parti. Il no non è una risposta che si può accettare.
Un’ospitalità quella di Orgosolo che abbiamo ritrovato ad ogni angolo. Nell’invito alla Cantina . Con le sue botti e i suoi profumi forti e pungenti. Nel laboratorio artigianale di una maestra della seta. Tramas de Sedas, con Maria Corda, che sembra uscita da un libro di fate. Perché sì, qui ad Orgosolo si produce anche la seta. Questo è il bello del mio lavoro. Scoprire le cose e poi raccontarle.
Orgosolo e il Museo del Pane Carasau. Orgosolo e il suo vino rosso. Orgosolo e la sua seta. Orgosolo e i suoi murales. Che altro non sono che storie dipinte sui muri. Notizie da ricordare. Momenti da immortalare. E sono tanti. E tutti diversi. E lo so che valgono da soli un racconto. E forse una promessa. Quella di ritornare e di lasciarmi ispirare dalla loro bellezza e dalle loro suggestioni.
Credo che Orgosolo una visita se la meriti tutta. Perché è uno di quei luoghi capace di rapire l’anima. Di entrare dentro l’anima. E poi qui si respira la tradizione e un’atmosfera bella. Come quella in cui vivevano le nostre nonne. Loro, che probabilmente il pane carasau lo sapevano preparare. Magari come fanno ancora da queste parti. Seguendo un rito antico e scandito da gesti secolari.
Vi svelo un segreto. Mentre scrivo sto mordendo un bel pezzo di pane. No, non come spuntino spezza fame. Ma come un ricordo da sciogliere lentamente in bocca. Vi è venuta fame?
Per informazioni, visite e laboratori:
Museo del Pane
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