La stanchezza è una bambina che ancora mi dorme addosso con i pugni chiusi e il respiro denso.
Venerdì’ mattina mi sono svegliata stanca. Era da un po’ che non succedeva. Per lo meno da quando la vita scorreva tranquilla. Da quando ancora non c’era il coronavirus. Mi sono portata dietro questo stato fisico e mentale per tutto il weekend, trascinandomi dietro un milione di cose da fare a casa e altrettante dalla mia agenda in cui segno ogni piccolo dettaglio del mio lavoro.
No, il mio umore non è cambiato da quando ho scritto, qualche giorno fa, le mie sensazioni su questa vita di quarantena. Sono ancora consapevole di essere felice e fortunata e di dovermi concentrare sulla bellezza delle piccole cose, come l’ ho definita.
Sono stanca, però. E questo è un dato inconfutabile, che non posso non considerare. Anche perché è una sensazione che non può rimanere confinata tra i miei pensieri. Esce fuori. Nelle occhiaie, in una risposta data male, nel mal di testa e in un sorriso che fa fatica a disegnarsi sul mio viso.
Per chi mi conoscesse poco, faccio un piccolo recap. Quando ancora studiavo mai avrei pensato di lavorare per conto mio. Anzi, il mio obiettivo era tutto il contrario. Occupare una scrivania in azienda, scrivere al computer e attendere la pausa caffè con il collega di turno. Qualcosa poi è cambiato. Colpa, forse, delle caratteristiche del mio segno zodiacale, i gemelli, che mi portano ad annoiarmi spesso e ad aver bisogno di stimoli e realtà sempre nuove. Vattelappésca. Quella mia ansia ed inquietudine si sono trasformate nel non voler più né un’azienda né una stabilità professionale. Ed eccomi qui, dopo quattro anni di vita da freelance, che negli anni si è evoluto, ma è pur sempre quello che rimango: una freelance.
E una freelance, tendenzialmente, lavora da casa. Ecco, io pratico lo smart working da molto prima che fosse inserito in un decreto legge come obbligatorio o fortemente consigliato. E capisco lo smarrimento della maggior parte delle persone, quando improvvisamente si sono trovate a lavorare tra le quattro mura di casa, in quell’incrocio compreso tra il corridoio in fondo a destra della cucina e quegli altri individui, chiamati familiari, che gironzolano per le stanze e chiedono attenzioni. Ci si sente disorientati, confusi, coi sensi di colpa, sopraffatti. E stanchi.
Forse è una questione semplicemente di abitudine. Di farci il callo, come si dice. O forse è una questione di attitudine. C’è chi è portato per lavorare da casa e chi invece non lo è. In fondo non siamo fatti tutti nello stesso modo. Per quanto mi riguarda, credo che mi renda felice. Sono una che scrive a voce alta, che ha bisogno dei suoi tempi e di stare da sola. Lavorare da casa mi aiuta. Nonostante tutto.
Li ricordo bene quei primi giorni. “Giulia, ti ricordi di fare quella cosa? Giulia, vai a fare la spesa? Giulia, puoi chiamare Tizio?” La mia vita era diventata un alternarsi di aree di lavoro che si intersecavano inesorabilmente con quelle private. Io ero quella che stava a casa e l’equazione è semplice da risolvere: lavorare da casa fa rima con avere più tempo a disposizione. Per sé e per la famiglia.
Nella realtà, quella vera e quotidiana, le cose non stanno esattamente in questa maniera. Innanzitutto perché, di solito, chi fa smart working è un libero professionista, un freelance, per restare ancorati ai termini inglesi. E per un freelance la sua piccola attività ha tutte le caratteristiche di una vera e propria azienda, in cui si è al contempo amministratori, impiegati, contabili, creativi e anche addetti alle pulizie. Ma anche se così non fosse, come ad esempio la situazione che stanno vivendo in molti in questi giorni, lavorare da casa non significa avere più tempo a disposizione. Significa, anzi, perdere la dimensione e i confini naturali tra vita privata e lavorativa.
E spesso ci si ritrova a provare maggior fatica. Perché si sta maggiormente davanti al computer, si controllano di più le mail e quel lavoro che si sta facendo in team con i colleghi, magari con un bimbo attaccato al collo. E ci si dedica anche di più alla casa. In fondo, cosa ci costa? Il nostro ufficio è accanto al salotto, possiamo trovare qualche secondo per sistemare i giochi lasciati in giro.
Certo, questo è il lato negativo e pessimista di tutta la situazione. Lavorare da casa ha i suoi lati positivi e anche alcuni privilegi. Se così non fosse, io, ad esempio, non avrei sicuramente scelto questa strada.
Ma, c’è un ma. Qualche giorno fa ho dato un’occhiata ad una ricerca, che aveva come oggetto proprio il lavorare da casa. Lo smart working, o come è stato definito in alcuni casi l’extreme working. Questa ricerca ha un titolo ovvio, #IOLAVORODACASA, ed è stata condotta da Valore D, un’associazione che studia le realtà virtuose in Italia e che cerca di migliorare la vita di impresa.
Quel che è uscito fuori non mi ha sorpreso molto. L’analisi, infatti, ha fotografato un’istantanea in cui “1 donna su 3 lavora più di prima e non riesce, o fa fatica, a mantenere un equilibrio tra il lavoro e la vita domestica”. Per gli uomini il rapporto è di 1 su 5. Un po’ sbilanciato questo risultato. Dovei rimanere sbalordita dalla constatazione? Non lo sono purtroppo, perché in Italia vige un’amara regola, che vede le donne sempre impegnate in prima fila nella gestione familiare, della casa e dei figli. E, in questo periodo, questa regola diventa ancora più rigorosa ed essenziale, essendo confinati dentro le pareti domestiche.
Di chi è la colpa? Nostra? Forse. Della società? Forse. Degli uomini? Forse. In realtà credo sia un connubio di cose, di stati d’essere e situazioni. Non voglio colpevolizzare la mia categoria, ma mi rendo conto che spesso sono la prima a dire “faccio io, non ti preoccupare che ci metto meno”. Io soffro di quella sindrome da salvatrice del mondo, faccio fatica a delegare e, spesso, penso di fare le cose meglio degli altri… Anche lavare il bagno. Spero non siate tutte così, come me.
Quel che resterà, di questa pandemia e di questo lockdown, è un grosso senso di cambiamento. Dovremmo sfruttare queste settimane per cambiare un po’ le cose e disegnarle come vorremmo che fossero. La strada è ancora lunga e tortuosa e detto da una che trova conforto nel lavoro e riesce a sedersi e rilassarsi solo arrivati alle nove di sera, lo so, non sembra avere un gran fondamento. Ma in qualche modo bisogna provarci. Per trasformare il lavorare da casa in quel qualcosa di bello, che può renderci felici.